Dino Buzzati (1906-1972)
è stato uno scrittore, giornalista, pittore, drammaturgo, librettista, scenografo, costumista e poeta italiano. Fin da studente collaborò al Corriere della Sera come cronista, redattore e inviato speciale.

E uno scrittore esistenzialista
di un grande numero di romanzi
e racconti surreali e fantastici
tanto da esser stato definito il “Kafka italiano”

Il suo grande tema è la morte, la nera signora, ponte tra mondo fisico e mondo metafisico che ogni uomo dovrà varcare nella sua personale apocalisse (in greco “rivelazione”).

Se le tematiche sembrano pesanti, dense, poco godibili,
lo stile è caratterizzato dalla leggerezza, dall’ironia
insieme con una profonda umanità.

I suoi personaggi sono spesso dei perdenti che hanno l’occasione del riscatto. In molte sue opere vediamo la vita passare in una lenta attesa con rituali quotidiani ed i desideri orientati verso un altrove inquietante che non è dato conoscere, ma che l’autore si sforza di indagare attraverso il fantastico.

Il borghese, eroe del buonsenso e del pragmatismo, odia il buio dello sconosciuto, ma non si rende conto che quelle insicurezze lo consumano. Il borghese giorno per giorno è costretto a una fatica di Sisifo. È un protagonista perfettamente mediocre, senza qualità di rilievo, invisibile nella sua uniforme del quotidiano, spersonalizzato più che disumanizzato.

La figura femminile appare a Buzzati aliena come leggiamo in Inviti superflui. L’uomo sembra incapace di comprenderla: così leggiamo nel Grande ritratto e in Un amore. Solo la Madre sa capire il figlio e allora, nella maternità, la donna gli si rivela come «un essere vagamente superiore», che l’uomo tenta di rinchiudere in precisi circuiti di senso, spesso retrocedendola allo stato di oggetto di piacere. Ma, in Un amore vediamo che la donna non è più «un groviglio di cavi e di impulsi elettrici», come nel Grande ritratto, ma un abisso nel quale perdersi senza ritorno.

Si domanda se ci sono luoghi in cui appare ancora possibile lo straordinario: magari le montagne… ma anche l’Everest è ormai violato e non esistono più luoghi vergini. Così l’ultimo luogo del mistero è la letteratura, dove ogni impossibile si fa possibile.

Tra tutti i suoi scritti, “Il Deserto dei Tartari”
è considerato il suo capolavoro,
scritto nel 1939 e pubblicato nel 1940,
in Eritrea ove svolgeva le funzioni di corrispondente
per il Corriere della Sera (avrebbe dovuto intitolarsi La Fortezza).

La storia è semplice e piuttosto statica.
Un giovane militare cui si prospetta una brillante carriera, e che risponde al nome di Giovanni Drogo, viene assegnato alla Fortezza Bastiani.
Per farsi le ossa, come apprendistato; non dovrà soggiornarvi per molto tempo. La sua è una vita monotona, giacché nulla accade nella sua postazione (Buzzati rivelò che lo spunto del romanzo gli era stato offerto dalla monotonia della vita redazionale che conduceva, in cui tutto era millimetricamente prestabilito, secondo la scansione di un tempo cronometrato dalla città milanese in cui operava).

Ma è ben più che un romanzo-capolavoro.
È l'amara allegoria dell'esistenza umana.
Vi ritroviamo uno dei temi più cari dell’autore : il tempo.
Lo scorrere inesorabile della vita,
il mancato controllo che abbiamo sul tempo.
Proprio la fuga del tempo
è il tema cardine del romanzo.

Considerato dalla critica il caposaldo della narrativa esistenzialista italiana, è inserito alla posizione 29 della classifica” I 100 libri del secolo” di le Monde.

Adattato per il cinema nel 1976, diretto da Valerio Zurlini,
con gli attori Jacques Perrin, Vittorio Gassman, Philippe Noiret.
Nel 1977, ha ricevuto 2 David di Donatello e 1 Nastro d’Argento del miglior film.

DINO BUZZATI

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